Certe sere ho una tale, amara stanchezza in testa che non passa neanche col sonno. Così scrivo, ma la grafoterapia è altra cosa...

Da anni ho imparato che nelle notti di plenilunio è inutile che io cerchi di dormire. L'ho capito quando molto tempo fa, dopo essermi rotolato per ore al buio, convinto di dormire perché ero a pezzi, mi sono alzato chiedendomi cosa mi stesse accadendo. E lei era lì, in mezzo al cielo, sorridente, benevola. E mi ci sono arreso. Sarà che sono del Cancro, sarà che sono coerede dell'atavica paura di essere predati con la potente luce di quelle notti, fatto sta che mi rassegno e aspetto che tramonti, facendo qualsiasi cosa.
È agosto e il plenilunio ha un che di fascinoso, irrimediabile. Sono anni che "rigo dritto", ma il caldo smorzato dal fresco mi suggerisce di fare una marachella: scavalcare il cancello del parco di Villa Litta, per sentirmi padrone sconsiderato di una simile bellezza.
Parcheggio sul Pellegrino, percorro tutto viale Affori fino alla gelateria. E' un po' cara ma mi sparo una granita grande. Il cancello della villa che dà sul viale è ancora aperto. Lo scruto tuffandomi nel ghiaccio colorato. Manca un bel po' a mezzanotte, ora prevista per la chiusura, ma proprio mentre raschio il fondo del bicchiere vedo arrivare il sudamericano in scooter, che dà stupidi colpi di clacson per avvisare gli ultimi presenti di uscire. Ha già fatto il giro degli altri due ingressi e manca solo l'apertura principale. La sua minuscola fidanzata scende a serrarla, insieme al pedonale e ripartono.
Aspetto un po' fingendo di guardare il cellulare, quindi mi risolvo e seguo le curve di via Cialdini, sbeffeggio il cancellone dopo la caserma - troppo alto - e svolto in via Moneta. Afferro il telefono fingendo di chiamare mia zia, che non sento da 15 anni e manco so se sia viva. Finalmente, nessuno. Mi arrampico sul cancello, la sbarra diagonale è ideale per raggiungere la cima e scavalcare, ripercorrendola all'interno. Una volta dentro, divoro il mare di buio in cui sprofondo. Buio che mi dava paura immensa e così pure voglia di vivere, perché infatti, un suicida non ha timore di nulla. Purtroppo.
Sorrido inebetito seguendo la terra battuta che porta verso la villa al pensiero che, per il regolamento d'uso del verde comunale, sto rischiando una multa da 12 a 120 euro. Quando però raggiungo il muro della costruzione non lo riconosco: è giallo intenso, spostato, anzi no è legno, di recinzione. Arrivo sul davanti sempre più lento e deluso e non vedo molto, se non la sagoma spettrale di una gru e le barriere del cantiere, che lasciano annaspare i muri più alti dell'edificio. Abbandono le braccia, indietreggio e, presa la mira del bordo della fontana, mi ci siedo, con le guance tra le mani. Pure lei è spenta e mi piego a osservare la fonte del gorgoglio: l'acqua mesta precipita nello scarico e per un attimo penso di aver vissuto così, sperperando liquidi che scivolano via, cercando piacevolezze introvabili, come la villa che non posso ammirare, sotto la luce della luna grande.
No, non esiste, non ero venuto per deprimermi, volevo divertirmi ingenuamente. Sui muri della villa dei fari alogeni si accendono e spengono a turno, sembrano canzonarmi, pure loro. Mi alzo ignorandoli e vado a bere alla vedovella. Non ci sono più neanche i pesci rossi nella fontana vicina. Veramente, non ho mai capito che senso abbia tenersi dei pesci segregati, ma se per questo trovo ancora più assurdo mangiarseli. Be', c'è poco da fare. Torno a sedermi sul bucciato ruvido della fontana dormiente, arrotolo una sigaretta e la accendo malinconico. Secondo me ora posso sembrare James Dean, ma mi vengono in mente ben altri paragoni raccolti negli anni e preferisco flirtare con la luna. Non so perché, mi pare triste pure lei. Bah, sto proiettando, lei è sempre la stessa.
D'un tratto si alza una folata di vento fresco. Cerco di rallegrarmene se non che ho quasi una sensazione di gelo, la pelle d'oca e fiuto l'aria come un lupo in imminente pericolo. La brezza sembra venire dall'angolo da cui sono sbucato io, lo scruto e ho un sussulto, quando vedo comparire una donna vestita di bianco, scalza, con lunghi capelli neri che corrono a nascondersi dietro le spalle. Cammina decisa ma mi scorge e punta dritto verso di me, per arrestarsi a un palmo, in piedi, splendida, innaturale.
"Eccoti qui", sussurra. La guardo interrogativo chiedendomi se non sia fuggita da qualche struttura psichiatrica o casa, strafatta di qualche sostanza. Fisso i suoi occhi e spalanco i miei: la donna ha le iridi rosse. I fari del cantiere danno un bagliore corale e si spengono tutti mentre lei li sgrida con gli occhi.
Abbozzo: "Ma..."
"Pensavo di trovarti a casa, sai..."
Devo avere sulla testa un bel paio di punti interrogativi alla Felix the Cat, lei invece sorride e si siede al mio fianco. "Dai, Giovanni, non dirmi che non capisci. Sono anni che sogni un momento così". Sognare ho sognato, eccome, anche se ormai mi accontento del Rem, eppure questo romanticismo ha un sapore sapido come le lacrime.
Finalmente, ritrovo la voce: "Sì ma... tu... chi saresti?"
Ride, piano, dolce. "Ma come... Io... sono... la donna della tua vita!"
Per un attimo accuso la granita mojito e gelsi neri di chissà quale effetto psicotropo (altro che Rivotril), poi però richiudo la bocca spalancata e cerco di tornare alla realtà. Bella è bella, anzi, è stupenda, ma ha qualcosa di inquietante. E vorrei baciarla, sì, fosse anche l'ultima cosa che mi rimane.
Lei allunga la mano sulla mia e la carezza, dolcemente, pure se avverto il gelo nelle sue dita. Sorride, mi sfiora la fronte, mi scruta le labbra e la imito, impazzendo di battiti. "Insomma... Non hai proprio capito chi sono..."
Mi sembra di deglutire persino le narici, poi conquisto la forza di muovere la testa in un no adagio e sconsolato. Si fa seria, inclina viso, petto, voce e insomma tutto quanto, le scende una lacrima ladra e sibila: "Io... sono la fine..."
Non so perché ma invece di mandarla a quel paese, chiederle di che razza di nuova droga si sia fatta e incamminarmi verso il cancello, sento che forse non mente. E io devo solo svegliarmi, cavoli erano anni che non avevo incubi.
Mi faccio coraggio e provo ad obiettare. "Di solito... ti raffigurano diversa".
Ride di gusto, proiettando dal ventre ai capelli indietro. Poi posa i suoi rubini su di me. "Oh sì, se è per questo, mi descrivono anche così... Prima però...c'era chi, come gli slavi, mi pensava come mi vedi... con un rametto di sempreverde in mano. Toccarlo era la fine."
Le scruto le mani, ma non ha nulla. Ride ancora, poi mi sfiora i capelli, galleggio in una dolcezza immobile e mi spiega: "Sai... non mi serve altro che le mie labbra..." Mi ci incanto sopra, mi sfiora un pensiero e lei gli dà corpo: "No, evitare di baciarmi non ti servirà, sei alla fine"
Osserva la mia fronte mentre ci passa sopra le dita di neve.
"Hai usato troppo la tua testa... E ora è presa dal male..." Abbasso lo sguardo, ripenso all'ultima parola detta da mio zio: "Ecco", il viso si piega, un rivolo di sangue dalla bocca, mio nonno piange e lo chiama "Paolo! Paolo!"
"E... Come?..."
"...Aneurisma..."
Un attimo immenso, getto la spugna e mi piego verso di lei. Un bacio non si può descrivere, ma quello proprio è precluso ai vivi. Resto sulle sue labbra, gelide, infuocate, sottili. Si alza, mi tende una mano. Mi metto in piedi ma un altro me crolla a terra. In posizione fetale, inespressivo. Lo osserviamo, lei solo un attimo, poi si gira verso la luna.
"Muoviti" Si incammina verso la villa e la seguo.
"Ma... dove andiamo, ora?"
Immateriali, in una strana nebbia repentina, lei sta per salire lo scalone d'onore. "A Niguarda." Non la vedo in volto ma intuisco il suo sorriso.
"...Niguarda?"
"Sì, alla Maternità. Seguimi, col vento ci vorrà un soffio..."

Commenti