Voleva solo veder crescere suo figlio

Faccio rivivere qui questo raccontino che era pubblicato altrove. Il nome del protagonista è di fantasia. Il bimbo nella foto è mio nipote Daniele.

Allora non ero ancora un assistente sociale. Avevo la qualifica di asa e lavoravo per una cooperativa nell'assistenza domiciliare.
Come gli altri giorni, dopo alcuni servizi pedalo alacremente verso casa di Diego. E' un aiuto al pasto, ma in quel paio d'ore c'è ben di più. E non mi riferisco solo ai discorsi, faticosi perché lui ha ormai la voce molto flebile, o al bagno assistito due volte la settimana, né al bucato da stendere ogni tanto o alle scale che facciamo insieme come piccolo esercizio riabilitativo. In quelle due ore Diego mi insegna come si fa a resistere a una malattia degenerativa sconosciuta. Per l'ospedale lui dovrebbe essere già spirato da anni, ben prima che compisse i 50. Invece lui resiste (alla facciazza dei luminari), riesce a sorridere, a comunicare, a camminare, a mangiare con appetito, ad appassionarsi agli sport atletici in tv, a farmi parte del suo grande amore per il figlio che ha 7 anni: l'ho incrociato qualche volta ed è una meraviglia.
Oggi niente bagno nè bucato da stendere. Come le altre volte, aiuto Diego a sedersi, apparecchio, scaldo le vivande e le metto in tavola. Prima di mangiare, come sempre, lui mi invita a prendere qualcosa, era un grande sportivo prima di ammalarsi e mi ha fatto capire di non fare complimenti, perché non posso andare in bici tutto il giorno senza fare uno straccio di pranzo. Caccio via la sensazione che oggi Diego appaia più...stanco, ma succede a volte e tra gli alti e bassi dell'umore e della malattia non ci do peso, magari domani andrà meglio. Invece...
Invece, dopo aver fatto le scale, mentre siamo seduti sul divano davanti al televisore acceso, Diego col suo filo di voce si fa più serio del solito e mi dice a bruciapelo che andrà via di casa, finirà in un istituto. Resto a bocca aperta, poi cerco di capire chiedendo lumi ma balbetto. "L'assistente sociale non ti ha detto niente?" mi domanda lui in un sussurro. No, non ne so nulla. Diego allora mi spiega che la moglie si è lamentata che non riesce più a seguire il marito, che deve lavorare, accudire il figlio e che ha problemi di salute a sua volta. Va bene ma - obietto - si possono aumentare le ore, usare l'accompagnamento per dare più asssistenza, io, d'accordo con il servizio sociale e la cooperativa, avevo già fatto delle notti, in passato, pagate dalla famiglia... Non lo dico per me, si può trovare un'altra persona... Si possono studiare delle soluzioni alternative...
No, è deciso, mi spiega Diego. Non c'è niente da fare. Gli chiedo stupidamente se lui sia d'accordo. Per tutta risposta lancia un singhiozzo, gli sfuggono le lacrime e mi dice che preferisce rimanere a casa. Mi ha spesso confessato che si sente un peso, anche per me - e io a spiegare che se il lavoro non mi fosse piaciuto, non mi avrebbe visto per quasi due anni dal lunedì al venerdì, con la neve o col sole - ma stavolta aggiunge una frase piena di sentimento: "Vorrei solo veder crescere mio figlio, un altro po', finché non muoio..." Guardo nella stanza come se il piccolo fosse lì, con il padre tutto felice mentre lo osserva aggirarsi per la sala. Mi riprendo e dico a Diego che parlerò con l'assistente sociale, con la cooperativa. Lui mi sorride, forse in questo tempo ha apprezzato i lati positivi della mia testardaggine, anche se quando lo saluto intuisco che, come chiuderò la porta, piangerà a dirotto. E anch'io lacrimo, mentre scendo le scale e cerco idee perché Diego resti a casa. Nei giorni successivi arrovento il telefonino e la bici, però sia la "sociale" (odio quest'espressione ma qui la uso deliberatamente) che in cooperativa mi dicono che capiscono la mia rabbia ma sono troppo coinvolto: il lavoro di cura di Diego è diventato troppo oneroso, "...te ne sarai accorto anche tu". Veramente, in questi 20 mesi mi sembra che lui sia rimasto stabile, non mi pare affatto peggiorato. "Eh lo sappiamo, succede di diventare partigiani dell'utente, capita spesso agli assistenti domiciliari ma devi accettare la decisione anche tu".

Mi avvicino al bancone della reception e chiedo di Diego. La Rsa è tutta nuova e lucente ma ho la solita reminescenza evangelica: "sepolcri imbiancati". Mi indicano il piano e il numero della sua camera. Quando la raggiungo lo trovo steso a letto, quasi immobile. Penso subito che almeno, seduto sul divano, stava meglio col corpo e con la dignità. Ma devo piantarla, sono qui per fargli un saluto e stop. Diego quando mi vede si sorprende, cerca di tirarsi su - invano - lanciando un sorrisone e, a suo modo, un urlo di gioia. - "Che ci fai qui?" - "Mi sono perso, come al solito!". Cerchiamo entrambi di far finta di niente ma i sorrisi sono più difficili. Ha la stanza singola, il televisore, è tutto nuovo di pacca e strapulito; parliamo come se alla fine lì stesse bene. Mentre discorriamo, mentre un'ausiliaria viene a fare gli onori di casa e, dopo un po', a invitarmi ad andarmene perché "l'orario delle visite è terminato", restiamo con una tristezza infinita. Nel giro di qualche settimana mi sembra che sia stata incenerita l'opera paziente di mesi: Diego è peggiorato. "Oggi sono riuscito a camminare per la stanza", mi ha detto più per me che per se stesso e io ho pensato alla fisioterapista che così ha segnato un'ora di attività sulla sua cartella, infarcendola di bugie. Alla fine Diego mi saluta con un arrivederci, ma, nonostante il mio proporre un'altra visita, lo pronuncia con il tono di chi ha compreso che non avrò più il coraggio di tornare lì. Sa come la penso, ne ho girate di case di riposo e ho visto che per ogni paziente è già tanto se viene prestata un'ora effettiva di assistenza al giorno. Non vorrei essere irrispettoso, ma non ho ancora conosciuto un posto che non sia un cronicario dove resti soltanto di aspettare la fine.
Mentre tiro il collo alla Uno, mi faccio largo tra le gocce di dolore per vedere la strada. Ma non vedo altri passi per me; difatti, di lì a qualche giorno avrei lasciato il lavoro e cambiato casa. Sarà stato uno sbaglio e il mio risentimento dettato da una visione parziale. Però, anche se non avevo mai sposato completamente le ragioni di quell'assistente sociale, questo era troppo. Ma io sono un semplice asa, non sono un esperto di processi d'aiuto...
Qualche anno dopo, la incrocio in Università. Come la vedo, con altre studentesse e con uno psicologo che è stato anche mio insegnante, capisco che è lì a fare il +2. La saluto e le dico tutto contento che ora siamo colleghi. Mi risponde piccata che non è proprio così, lei sta facendo la specialistica, demolendo così il sorriso a me e al docente, che con gli occhi sembra dirmi che fatica a sopportarla. Mentre lei continua a parlarmi, la guardo ma non la ascolto: risento la voce annichilita di Diego che dice "Vorrei solo veder crescere mio figlio".