Sto seduto qui, su una panchina duramente liscia, i capelli troppo corti perché il vento mi ci carezzi la fronte. Le mani in tasca, solita pigrizia, meglio non scoprire di aver perso un guanto.
Se batto i piedi non è per il freddo, ma tanto per ricordarmi che sono vivo, che sotto le suole c'è terra sicura, ancorante. Per la sciarpa è presto, per fortuna.
La strada è inutile, perché non aspetto nessuno. Non so nemmeno cosa ci faccia qui, gli amici andati via, bicchieri vuoti, tutti che scappano da qualche parte prima del buio.
Non è come nelle canzoni, e poi dai, ci si può davvero burlare sperando nel sentimento dei sentimenti? 
Vorrei certe parole da leggere, ma non arrivano. Che parlino di orchidee, di serpenti e di pomate con disegnati sopra orsetti lavatori, di olive da spremere, di piante da accudire, di tradimenti da seppellire, di fragilità che diventa forza, di campagna e ladri, gatti, tanti gatti, soprattutto loro. Ogni volta che si cade si nuota in follia cristallina e quasi sembra che la ragione sia stupida, solo stupida, coi suoi numeri, con la sua accondiscendenza verso il potere.
Passano capelli lunghi, scuri e salto a un'idea che ho, così distante, tanto nebbiosa. Non aspetterei altro, ma non è cosa. Non facciamo gare di solitudine.
Sto seduto qui, su una panchina freddamente liscia, che immagino capelli troppo lunghi, troppo lontani. Lascia stare...

PS Ma potevo davvero piantarla di sparare qui questi deliri?

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