luna sanguinante

Mio padre amava molto andare a pregare al cimitero degli Inglesi, posto a metà del Parco di Trenno. Trent'anni fa c'erano ancora i fuochi fatui e lui li vedeva, ma una sera erano talmente inquietanti che papà se la batté di gran carriera, mi confessò una volta.
Il Milan War Cemetery è di fatto l'unico camposanto di guerra della città, dove sono stati trasferiti, a conflitto finito, molti prigionieri e aviatori uccisi nel Nord Italia. Poco più di 400 soldati britannici, una mezza dozzina di altri paesi; alcune decine di salme non sono state mai identificate. Un posto che comunque trovo suggestivo, con tutte quelle croci bianche, così disperatamente uguali.
Per anni, quando ogni tanto mi veniva voglia di strimpellare la chitarra, di sera, ci andavo, sapendo che, specie nella stagione fredda, di lì non passa un'anima. Mi mettevo sulle panchine alle spalle del cimitero, alla fine del quale c'è un capanno degli attrezzi per la manutenzione soprattutto del prato, veramente all'inglese. 
Una notte però avevo notato che si era accesa la luce della finestrella del casotto. Arrivando ero sicuro che fosse spenta, come sempre. Poi, da dentro cominciano a sentirsi forti rumori, come di qualcuno che stia rovistando negli attrezzi. Allora mi metto a cantare forte, pensando che da buon ladruncolo questi avrebbe smesso. Invece di mettersi in campana, quello fa proseguire un vero e proprio frastuono, senza sosta e con una furia crescente, spaventosa. Morale, batto in ritirata - e veloce, anche!
Da quell'episodio non ci sono più andato ma, complice il clima settembrino, visto che prima dell'alba del 28 è prevista la luna di sangue [a cui dedico questo raccontino] e sono libero, decido di andarci con la mia nuova chitarra, vestito un po' coperto.
La notte della domenica è sempre un mortorio e a quell'orario da lupi, lì, ancora di più, infatti sembra che non ci sia nessuno. Fortunatamente non c'è nuvola in cielo, solo la luna, grande, lucidamente triste.
Attacco il mio "repertorio" ma dopo il riscaldamento con brani sparsi, non riesco a non finire su Faber. Fino a "Inverno", straziante, non tanto per il mio livello mediocre quanto per la cornice. Be', poi c'è "Eroe di guerra". La luna intanto comincia a sbiadire.
Mentre allungo le battute della canzone, perché mi ulcera l'aorta, percepisco in lontananza la sagoma di un uomo che si avvicina. Vado in fibrillazione ma cerco di non mostrarlo. Almeno questo l'ho imparato sulla strada, meglio fare come coi cani e nascondere la paura. Oltretutto quello che cammina ha il passo lento, il che non mi fa pensare a un malintenzionato. Infatti, mentre sono all'ultima strofa, lo vedo fermarsi a un paio di metri, come ascoltandomi. Finisco e ho un buon motivo per bloccare la lacrima che vorrebbe lanciarsi da me.
Lo guardo: è un ragazzo giovane, vestito con blusa e pantaloni color grigio, con una foggia veramente strana. La pelle pallidissima, i capelli così chiari da sembrare bianchi. Come tornando in sé, mi squadra e mi saluta, senza arrivare a un sorriso.
Ricambio. Senza sorridere. Con uno spiccato accento slavo, mi chiede di che parlasse quella canzone. Di un soldato, la cui donna ne aspettava il ritorno, invece si ritrova nel letto una medaglia. Lui ha un'espressione che pare volgere al riso, ma abortisce in una smorfia di dolore. Si avvicina e si siede, sull'altro bordo della panchina di mattoni. Mi domanda una sigaretta, ho il tabacco, gliene rollo una? Sì, grazie.
Gliela porgo e gli faccio accendere, al chiarore della fiamma il suo pallore mi inquieta, sembra quasi.... sia fatto di gas!
Deglutisco e cerco di dissimulare l'inquietudine. La luna è ormai arancione, ma non mi affascina e nemmeno mi ispira come argomento. Fumo a mia volta e rompo il silenzio cercando di capire se sia qui per l'Expo. No, non sa cosa sia. La Fiera, accenno. Ah sì, sembra capisca ma deve avere la testa ben altrove.
Mi chiede un'altra sigaretta. Lo so, uso filtri piccoli, vengono sigarette che durano poco. Lui non batte ciglio. Gliela accendo mentre ormai il viso della luna si fa minaccioso, sanguinante.
Dopo la prima boccata e una nube enorme di vapore, sembra volersi spiegare. "Sai, questo posto...". Annuisco. "Hanno portato noi da tante città, qui, Bergamo, Piacenza, Modena, Parma, Torino, Val D'Isère...". Attribuisco il senso per me errato della frase alla sua lingua madre, forse è una persona molto depressa, chissà, e ha 'sto "trip" del cimitero - come me del resto, se no non sarei lì.
"Amavo Italia... Guerra ormai finita...". Deglutisco anche il velopendulo, ma al terrore che sento salire si mischia un'inedita sensazione di tormento, immancabilmente contagioso, che viene dalla voce cavernosa del ragazzo.
"Pensavo che bello, vivere con voi felicità... Di Liberazione e... Scherzare, ridere... Ballare, mangiare, bere... Baciare ragazze..."
Non piange, e viene a me da farlo per lui. 
"Altra, per favore...". Era per me, gliela passo e me ne faccio ancora, ma mi tremano le mani, gli occhi sono troppo umidi. 
"Era primavera, primavera stupenda. Io ero sopra Boves, sai, dove nazisti peggio di diavoli... Quando sparavano da side-car con mitra... SS sfondavano porte... Davano fuoco a case... Ma chi poteva era scappato, non ci credevano a Peiper, Peiper!... Parola d'onore di ufficiale tedesco vale scritti di tutti italiani... E così in paese erano rimasti... Bambini... Donne... Vecchi e... Malati...".
Sotto un pianto di sangue nel cielo, il ragazzo boccheggia fino ad alzare dritta la schiena, come cercando aria inesistente. E piange, finalmente piange. Lacrima e ride, impazzito. "Il prete e... E altro... Bruciati... Vivi!". Si tuffa fra le mani e singhiozza, come se gli stessero dando le scosse di un defibrillatore. "E... Vecchia a letto... Dio!" Tuona senza poter più parlare, freme per minuti interminabili.
Quando finisce, si tuffa all'indietro e respira. Mi sblocco, preparo una paglia. 
"SS attaccarono Boves tante volte... Ultima, anche se era finita. Paese era in festa, con bandiere e nessuno... Nessuno si ricordava, che cani dovevano passare, in ritirata. Vedette sparano, comandante morto... E quelli vendicano, sparano a civili, a noi partigiani..."
Sto sognando, tra poco mi sveglierò. Ma lui finalmente sorride, piano, piano...
"Giudici tedeschi non volevano e allora... Peiper... Bruciato in casa... Con molotov... Perché in fine giustizia trovi..."
Inizia a girarmi la testa e le sue parole mi arrivano troppo confuse, mentre mi sembra che il partigiano si dissolva nella foschia che sta salendo dal parco, in fuga dalle vicine piste dei cavalli. "Grazie. Non sai quanto aspettavo ora..."
Il freddo dell'alba vicina mi risveglia e mi ritrovo abbracciato alla chitarra, messa in piedi sulla panchina, come fosse una donna. Sbatto gli occhi per abituarli a vedere e mi volto, ma non c'è nessuno, solo il vapore che salta nel parco e il presagio di chiarore del sole, che sta per violentare la notte. Mi alzo e penso a una sorta di congestione, dovuta alla temperatura, forse prima della schitarrata non avrei dovuto farmi panino e birretta al chiosco, all'inizio del parco.
Ma che strano incubo... Mi sgranchisco, arrotolo il tabacco e osservo i mozziconi a terra: cavoli, ho fumato come l'inceneritore di Figino... Boh, chiudo chitarra e spartiti nella custodia, accendo la sigaretta, tracolla in spalla e vado via. Da un albero una goccia di rugiada precipita a terra, sul corposo mucchio di mozziconi: l'ultima lacrima per stanotte.

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