G. e l'Huntington

 Un piccolo racconto dei "bei" tempi da assistente domiciliare.

"E poi c'è G., ha la corea di Huntington, la conosci?". Esito davanti al suo sguardo interrogativo e fiducioso, che però deludo: "Veramente no, mai sentita". La coordinatrice della cooperativa tace, senza spiegare la nosologia, scoprirò da me cos'è. Mi sta passando i casi del tipo che sostituirò nell'assistenza domiciliare, lui è sparito dietro a una bella albanese.
Mi documento un po' ma non uso ancora il computer e poi, la malattia non uniforma le persone, ognuno ha la sua unicità. Arrivo in buon anticipo ma G. non c'è. Un classico, è un modo per l'assistito di dimostrare che lui ha impegni da osservare, il che poi è vero: non è che perché sei malato non devi fare più nulla, anzi. Anzi.
Quando arriva, non posso che essere sicuro che sia lui: traballa, ha scosse continue, da lì capisco perché la si chiamava còrea, danza. Mi presento, sì, lo avevano avvisato, gli offro il braccio per aiutarlo a camminare ma lui mi spiega che rischierei di farlo cadere e di prendermi pure qualche cazzotto. Oh, va bene. Inizio a imparare la malattia, come la affronta lui (negandola) ma soprattutto, chi è G. Per fortuna non sono un medico, mi importa assai della diagnosi, devo aiutare quest'uomo e basta.
Rimango stupito vedendo che ha due televisori uno a fianco dell'altro. Così, mi spiega con la sua voce, saltellante anche lei, che quando gli viene uno scatto non perde la scena perché la testa balzerebbe altrove. Scoprirò poi che la solita assistente sociale geniale, ma geniale proprio, gli aveva dato 5 milioni di lire per ristrutturare la casa, per una perdita ma principalmente per rendere il bagno a misura di disabile. La furba gli molla l'assegno, lui lo incassa e si compra due televisori, un lettore vhs 6 testine da paura, film di ogni genere, cavi Scart, cuffie cazzute con chilometri di filo... Carissima, se eroghi un sussidio di una certa portata, potresti farlo coi crismi, no? No, è l'utente che è un pezzo di.. Ok, lasciamo stare.
G. non prende farmaci, non è malato, secondo lui. Lo assecondo e comincio a sentire una tenerezza come verso un bambino. Perché, sostanzialmente, lui è innocente.
Mi accompagna al discount, in tram, per farmi vedere dove e cosa comprare: cola, merendine, i detersivi... Per mangiare G. incassa la pensione e poi ordina una ventina di pizze, il tipo gliele porta felice - e ti credo. Una la mangia subito, le altre le congela e le scalda nel forno elettrico, quasi una al giorno. Aveva avuto una pizzeria ed era stato felice, sposato. Il figlio non lo vedrò mai e mi toccherà sorbirmi l'inevitabile immedesimazione, visto il mio ruolo di cura.
Non è facile aiutare G. ma lo assecondo, compresa quella volta che, nel suo ottimismo infinito, mi manda in un sexy shop perché vuole info per aprirne uno in franchising. All'inizio trasalisco, chiamo la coordinatrice per avere dritte e lei mi risponde serafica: certo, vai, prendi qualche opuscolo e portaglielo, non frustrare i suoi desideri. Giusto. Faccio tutto e tra l'altro mi sincero del prezzo, che è uno spavento: vorrei dirgli, ma siete fuori, tra un po' sparite, ormai per film e giocattoli c'è internet. Pazienza. Quando riferisco a G. la cifra quasi gli viene un colpo e così abdica dal sogno imprenditoriale.
"Ma come fai a tagliargli i capelli?!" Pure la parente rompina, G. sistemala. Balbettando, le risponde che dove lo trova un barbiere disposto a raderlo? Io ci metto tre quarti d'ora ma oltre ai capelli gli faccio la barba, quando gli viene una "scossa" mi fermo, o meglio, sto attento ad allontanare il tagliacapelli elettrico immediatamente. Con la scusa di togliergli i capelli dal capo, gli faccio delle spugnature e così gli lavo tutta la testa. Lui si rilassa, si sente coccolato e io.. Io sorrido dentro di me, adoro questo lavoro e prendersi cura di qualcuno non è semplice, ma ha tanto, troppo senso.
Gli faccio spesa, bucato, stiro per quanto posso, gli lavo sanitari, pavimenti e, quando la spunto ("non è sporco, ti dico!"), pure qualche finestra. Mi viene da ridere a pensare ai discorsi con lui, che tipino! Politica, donne, Shrek, sì, Shrek, piangeva senza farsi vedere, guardandolo: G. si sentiva un po' un mostro, ma aveva diritto, come tutti, ad avere affetto. Ma pure quando ci incacchiavamo gli volevo bene. Anche lì, per quasi due anni, sono stata l'ultima persona a incontrarlo più spesso di chiunque altro. Nostro malgrado.
E poi G. mi faceva ridere, aveva delle uscite spettacolari, come quando volle andare a comprare il paiolo per fare la polenta. "Ma G. il gas è staccato". "E che c'entra?". In effetti, aveva dei fornelli da campeggio ("ma non lo dire a nessuno eh"). Aveva una tenerezza profonda, come quando mi raccontò del malore in Duomo, cadde a terra e non lo aiutava nessuno, nessuno, ma lui li giustificava dicendo che dovevano averlo preso per un "tossico". A parte che se vedi uno in difficoltà puoi aiutarlo pure se è un demone, penso tra me e me che è la solita becera indifferenza generale, puoi star male in mezzo a centinaia di persone eppure, chi muoverà un dito per aiutarti? A Milano poi!
A un certo punto G. peggiora, il pavimento è allagato di cola perché ha scatti veloci e non riesce a berla mentre io faccio la spola tra il bagno e la sala col mocio per pulirla via. Nel mio lavoro di segnalazione riporto che sì, è peggiorato, ma la solita sociale genialmente decide di farlo ricoverare. Coi vigili. Cosa? Coi vigili?! Mah... Arrivano due elementi che te li raccomando, uno fa Rambo, confabula con la "sociale" e decide di ammanettarlo. Per fortuna non vedo la scena, se no sarei ancora in carcere - poco prima mi chiedono di procurargli un panno (capirò poi, per nascondere le manette mentre è in barella), vado in camera e quando torno incontro solo i suoi occhi incazzati, accusatori. Mi viene da piangere ma resisto, lo farò dopo, rimasto solo in casa, prima di chiuderla e portare le chiavi alla sociale (che improvvisamente inveisce contro i vigili, certo, scarica il barile, brava). G. però, che frequentava i sanbabilini ("ma se c'era da menare scappavo, mica son scemo, lo facevo solo per le ragazze"), si fa dimettere e quando mi comunicano di tornare al suo domicilio sono quasi felice. Quel po' di farmaci che ha preso lo hanno fatto migliorare.
Presto però torna peggio di prima. La malattia funziona un po' come un veleno, parte dal basso, uccide le gambe e quando arriva ai polmoni è davvero la fine. G. comincia a far fatica a respirare e... Avviso la cooperativa, odio dover dire che penso che un utente non ce la farà, ma pure questo è assistere, fino alla fine.
Si predispone un ricovero, stavolta senza sociale e vigili, c'è solo la brava coordinatrice ed io. Lui ormai fatica a parlare, sembra rimanere lucido a tratti, il cervello è povero di ossigeno. Lo curiamo, lo idratiamo con gocce d'acqua sulle labbra, poi arriva la lettiga. Saluto la mia coordinatrice, salgo con lui e quando si agita lo rassicuro, stiamo andando in un buon ospedale, solo per farlo star meglio. Arrivati, lo allettano e lo lasciano lì, cerco di parlargli ma poi va in crisi respiratoria, l'ultima: corro a chiamare le infermiere e dopo non resisto, non voglio vederlo andare via. Scappo, sì scappo, sarà umano no? E poi non è semplice correre giù dalle scale con gli occhi pieni di lacrime.
Fuori incontro i soccorritori e gli do la notizia, ma era chiaro che ormai... Ormai. Non potrebbero, ma forse mi vedono così affranto che mi danno un passaggio e gli racconto un po' di G. e di me, di come ho cercato di aiutarlo. Sono sconvolti, la malattia non è famosa ma quando la incontri la odi. "Hai fatto del tuo meglio, ragazzo, non ti rimproverare nulla". No, non lo faccio, anzi, mi porto dentro quel suo sguardo disarmato che sembrava dirmi: "Voglio vivere, Giovanni, voglio vivere anch'io".

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