Scrivere per sublimare

Ogni tanto faccio sparire qualche post. Me ne rammarico sempre, perché vanifico qualcosa in cui pure mi ero impiegato. A volte cancello parole perché non le sento più, perché penso di essermi sbagliato.
Scrivere è una delle tante azioni della civiltà per sublimare: il desiderio, l'aggressività, il sonno, tutte quelle cose istintuali che come tali ci fanno sopravvivere. Allora sacrifico sull'altare dell'istintività qualche post. Con violenza, come facevo quando scrivevo sulla carta. Non ho voglia di piedistalli, ma mi pento di aver gettato via qualcosa che ho sentito, che ho fermato su un foglio. Una sottospecie di poesia, una lettera d'amore, un saluto a un amico caro, appunti scolastici, persino le vecchie agende. Ho una ragione economica, perché dopo aver cambiato casa così tante volte cerco di tenermi l'indispensabile, come la carta "utile", libri sul sociale, quaderni dell'università e le fottute, immancabili scartoffie burocratiche.
Scrivo questo post perché quando passo da angie e rivedo il "fantasma" nel suo blog-roll mi pento, vorrei stracciare solo ciò che mi riguarda senza coinvolgere nessuno, ma questo è un alibi, dal momento che attuo questo esibizionismo mentale. Che poi, sarà tanto male? Celassi questi pensieri, mi parrebbero davvero una sega mentale. Che qualcuno li legga, apprezzandoli o criticandomeli, è un ottimo ritorno dell'immagine di ciò che comunico.
Non è suggestiva la bici in foto, con l'erba cresciuta tra gli ingranaggi? Eppure, si potrebbe pensare che è un ciclo abbandonato, guasto e persino che la pianta è di ambrosia, fonte di allergie. Si sopravvive, ma ci sono anche i sentimenti, la creatività... Sono essenziali.
Parole buttate via. Assenze presenti. Solitudini assordanti. La mia carta, i miei post buttati via, come pezzi inutili. Ma anche sacrificare pensieri ha senso, quello della perdita, lutto minimo, ben meno lacerante di persone, desideri scomparsi.

Commenti

  1. Allora non è vero che "al concetto di rimozione si collega quello di resistenza, un ulteriore meccanismo psichico che impedisce ai contenuti una volta rimossi di tornare nuovamente coscienti"...

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    1. No, invece è vero, ma si tratta di due processi disgiunti: la sublimazione è un meccanismo di soddisfazione, di difesa, "accettabile", mentre la rimozione, proprio con le resistenze a far riaffiorare consciamente quanto sepolto, è più del campo del malessere.
      Freud nel 1916 distrusse il manoscritto che doveva trattare compiutamente della sublimazione, insoddisfatto per quanto elaborato, in difficoltà nel rispondere al perché una pulsione si soddisfi per altre strade rispetto a quella sessuale. Nel "Disagio della civiltà" Freud scrive che "La sublimazione è un destino forzatamente imposto alle pulsioni dalla civiltà". Jung trova una delle sue soluzioni buoniste considerando la sublimazione come una contropulsione, una liberazione "nobile", zavorrando così il discorso di inutile moralismo. In realtà, Freud e Lacan sapevano che c'è sempre un residuo pulsionale che richiede almeno un minimo di soddisfazione.
      La sublimazione che offre la religione è un bell'esempio di questo enigma, perché, per quanto cambi la meta della puslione sessuale, Freud si spinge a considerare la religione la nevrosi dell'umanità, il suo delirio ("Avvenire di un illusione").
      Nell'arte, dove passeggia come al solito Lacan, la sublimazione diventa persino l'opposto della rimozione, perché la prima cambia la percezione dell'oggetto desiderato, l'altra invece lo allontana.
      Insomma, il terreno è ben complesso. Io volevo un po' consolarmi del fatto che, lottando il più possibile contro le mie rimozioni e resistenze, ho più agio a sublimare scrivendo (altri fanno i chirurghi, i pompieri, e così via...) mentre c'è chi per lavoro investe le proprie pulsioni nel massacrare chi sfida il potere: il manganello la dice lunga sulla salute sessuale (e quindi mentale) degli agenti dei reparti antisommossa...

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